Nuova macro Atac, una minestra riscaldata
Chi si aspettava discontinuità è rimasto a bocca asciutta, la nuova macrostruttura Atac varata ieri, la prima dell’era Raggi-Fantasia, è una squallida fotocopia delle altre
Chi si aspettava discontinuità è
rimasto a bocca asciutta, la nuova macrostruttura Atac varata ieri, 7 settembre (Disposizione Organizzativa n. 21), la
prima dell’era Raggi-Fantasia, è una
squallida fotocopia delle altre, la solita ministra insipida, riscaldata per
l’ennesima volta. Non c’è traccia di quel rinnovamento sbandierato in campagna
elettorale dai pentastellati, necessario per risanare le sorti dell’Azienda, a
un passo dal default, e atteso sia dai romani che dai dipendenti. Un’altra
occasione mancata.
Atac rappresentava il vero banco
di prova, la vetrina con la quale l’Amministrazione, e il Movimento, potevano dimostrare
di essere veramente una reale forza alternativa e riformatrice, lontana dalla partitocrazia.
L’obiettivo è invece sfumato, e nei peggiore dei modi. La macro, nuova solo a
parole, è una conferma delle passate, incredibile, la sintesi, la
materializzazione del legame, incestuoso, tra la politica e il sindacato.
Vecchie logiche che l’ex-Dg Rettighieri,
accusato dal M5S di esserne l’emblema, stava smantellando, ironia della sorte.
Pezzo dopo pezzo, imponendo uomini nuovi, volti freschi, nei punti chiave dell’Azienda.
Cambiare tutto per non cambiare
niente, viene da dire: lo spirito rivoluzionario dell’ex-direttore è stato
affossato scientificamente - fatto salvo l’ingegner Giraudi -, a vantaggio delle solite facce, che restano, ancora
volta, abbarbicate nei posti apicali. Anche se le condizioni di salute dell’Azienda
sono tali da non giustificare questa scelta. È assurdo, e un tantino
incoerente, che il Movimento abbia trovato il coraggio di proporre
sostanzialmente lo stesso management, quello che ha sempre criticato, aspramente,
arrivando persino ad affermare che «la presente macrostruttura si pone in un’ottica
di rafforzamento e sviluppo della Società». Forse, sarebbe stato molto meglio
lasciare le cose come stavano, almeno per il momento.
Di solito la riorganizzazione
aziendale la fa l’Amministratore Delegato o il Direttore Generale, le figure operative,
e solo dopo aver tracciato la programmazione futura (Piano Industriale). In
Atac non c’è né l’uno né altro, e allora perché tanta fretta? Perché porre il
sigillo pentastellato su una macrostruttura stantia? A cosa è servita? È forse un
patto (o marketta) che l’Amministrazione
è stata costretta a suggellare onde evitare rappresaglie sia dai Confederali
sia dalle correnti politiche che tengono in ostaggio l’Azienda? Tutto suona
strano, ha il sapore di presa per i fondelli.
La prossima settimana sarà
pubblicata la seconda parte della macrostruttura, ma se le premesse sono queste,
c’è poco da sperare. Forse ha ragione Rettighieri, «il potere di sindacati e
politica in Atac è molto forte. Noi abbiamo cercato di arginare quel sistema di
clientele. Poi alcuni si sono rivoltati contro». «Sono stato spietato ma giusto»,
aveva aggiunto, «come mi hanno insegnato in Ferrovia. Ci siamo solo comportati
in modo trasparente e onesto. Forse però abbiamo colpito zone intoccabili». Alé.
David Nicodemi
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